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Vediamo il caso specifico del carnevale in Gallura, ed a Tempio in
particolare. Allo spettatore poco informato le manifestazioni
carnevalesche appaiono come una copia, più o meno riuscita a
seconda degli anni, delle sfilate di Viareggio, qualcosa di
moderno, messo su di proposito, per attrarre il pubblico che
sempre molto numeroso partecipa, o, per essere più precisi,
assiste. Ma un rito tanto sentito dalla popolazione locale, che
con mesi di lavoro massacrante e gratuito, si prodiga per
garantirne la riuscita, può avere radici così superficiali? È
appena evidente che la manifestazione ha avuto origine in epoche
remote e che, seguendo l’evoluzione dei tempi, si è rinnovata
aggiungendo al sostrato locale contaminazioni esterne con
l’intento di migliorarne la fruibilità, ma, così facendo, ha perso
completamente il carattere originale. Le ingerenze esterne, sullo
svolgimento del carnevale, hanno origini lontane. Un documento
d’archivio data al 1840 l’intrusione delle autorità sul carnevale
di Tempio
1, e probabilmente
non è la prima...
Ritrovare i caratteri originali delle maschere carnevalesche è
però possibile, anche se con difficoltà, consultando i testi
scritti negli anni passati, intervistando le persone di una certa
età e comparando quanto risulta da queste testimonianze con ciò
che ancora viene utilizzato, in contesti diversi o nelle zone più
conservative. Una ricerca strutturata nel modo anzidetto ha fatto
emergere un quadro d’ambiente gallurese in cui, al di là delle
maschere di cartapesta, prendono corpo altre figure carnevalesche
utilizzate fino ai primi anni del Novecento.
È ormai unanimemente accettato il fatto che le maschere popolari
hanno origine diabolica, come proposto da Toschi
2, il camuffamento
veniva realizzato con abiti dismessi, pelli e pellicce ormai
logore, come ci informa Cossu
3: «Gli uomini si
annerivano la faccia con la fuliggine dei paiuoli, si camuffavano
buttandosi addosso tutti i cenci, infagottandosi di vecchiume,
caricandosi di pelli, sonagli, campanelli, conducendo in mezzo
alle brigate le figure sinistre degli antichi satiri, dei
baccanti, dei coribanti, dei primitivi attori, di cui Tespi si
serviva per rappresentare i primi abbozzi di tragedia, sopra i
carri di città in città». Francesco Alziator
4, a sua volta, ci
informa che: «massima attrazione del carnevale sardo sono le
maschere animalesche barbaricine. Qualunque sia l’origine più
remota di questa manifestazione, certo è che in Sant’Agostino vi è
una sicura testimonianza di mascherate ferine e di maschere
animalesche.
Quando
Alziator conduceva le sue ricerche in Sardegna i costumi
animaleschi erano già scomparsi quasi ovunque, questo non implica,
però, che fossero presenti solo in Barbagia; Francesco de Rosa5
parlando del carnevale in Gallura, alla fine dell’Ottocento,
precisa: «fra le maschere che più riescono gradite sono i
cosiddetti “buffoni” (mascari brutti), che indossano abiti
sbrindellati, spesso sudici o pelli di vacca o di montone, o cuoi
di bue o di vacca, con corde a tracolla o alla cintura, con
sonagli e buccole che squillano continuamente. Cotali maschere,
colle lepidezze, colle mimiche svariate, colle buffonate e colle
curiose scene che rappresentano, fanno sganasciar dalle risa gli
astanti; onde vengono seguiti da lungo codazzo di fanciulli.
Questi buffoni mascherati, oltre al diritto di lanciar liberamente
motti pungenti e parole sconce all’indirizzo dei presenti o degli
assenti, possono costringere anche i più restii, servendosi
all’uopo della forza fisica, a ballare con loro, possono multare
chi meglio credono, facendo pagare qualche moneta, un litro di
vino o altro.
Mi pare che
non si possano avanzare dubbi in merito alla presenza delle
maschere zoomorfe anche in Gallura. Del resto, è risaputo che fino
ai primi anni del Novecento erano ancora in uso, a Tempio, il
corpetto di pelliccia senza maniche (ciamarru) e uno un
pelle rasata (cugliettu), «il travestirsi con pelli
ferine o d’animali domestici –scrive F. De Rosa - è un
tardo ricordo d’una delle primitive fogge di vestire di popoli
galluresi»6.
Qualche perplessità permane, invece, per quanto riguarda il
“mascheramento del viso”. Il De Rosa non precisa come avvenisse,
mentre il Cossu ci dice che annerivano la faccia con fuliggine. In
altre zone della Sardegna vengono utilizzate all’uopo maschere di
legno, sughero o tela. Tali maschere sono chiamate “carazzas”.
Questo termine è rimasto in Gallura ad indicare la protezione per
il viso che gli apicoltori usano quando si avvicinano agli
alveari, che è detta appunto “carazza” e che è una vera e propria
maschera che isola completamente il viso. Il Gana7
traduce il termine “carazza” con: «maschera; vocabolo non più
in uso; registrato dallo Spano». Il Rosso8
dà due definizioni: «maschera, testa di cartapesta con faccia
deforme – e - retina usata dagli apicoltori per difendersi
dalle api. La tradizione orale ci parla inoltre di “carazze”
fatte con il sughero, che ben si adatta alla forma del viso e
circondandolo lo protegge completamente.
A questo
punto la presenza della maschera zoomorfa anche in Gallura è
innegabile. Di questa abbiamo una descrizione nel dizionario del
Gana. Essa corrisponde a ciò che la tradizione popolare definisce
come “Lu Traicoggju”. Il Gana lo descrive come: «uno
spirito» che trascina un «cuoio
di bue o di cavallo al quale sono attaccati paioli vecchi,
padelle, ciarpami e catene, percorrendo con altri famelici
compagni le vie del paese»9.
Questa maschera era dunque una maschera zoomorfa e, allo stesso
tempo, anima di morto, che si aggirava per il paese, secondo la
fantasia del popolino, seguita da altri spiriti inquieti, che
possiamo individuare nella schiera dei morti (reula) di cui
da testimonianza anche il Bottiglioni10.
Quale
miglior occasione del carnevale, per esorcizzare le proprie paure
ed incuterne a chi apparentemente non ne ha, per rispolverare le
maschere demoniache? Che si vestissero da “figure sinistre”, in
cui animalità e umanità si amalgamano fino a diventare un essere a
sé, zoomorfo, appunto, è cosa ormai consolidata, ma è anche vero
che l’occasione carnevalesca serviva anche per imitare (ed
esorcizzare) gli spiriti... Non sono pochi, infatti, gli aneddoti
che ancora permangono nella tradizione orale che trasportano
questo “costume” in contesti diversi, ma che hanno nel carnevale
l’origine della propria esistenza. Per esempio, si racconta di un
uomo che vestito da fantasma si aggirava di notte tra i poderi per
rubare gli ortaggi. Per impaurire i poveri agricoltori, “vittime
dell’appropriamento indebito”, diceva: «Primma
cand’era ‘iu,/ andaggja riu riu./ Abali chi socu moltu / Andu
oltu par oltu»11.
Finché un giorno, un agricoltore si fece trovare nell’orto in
compagnia di una persona nota per il coraggio e l’audacia che,
all’apparire del presunto fantasma che diceva la solita
filastrocca, rispose con tono minaccioso: «Bocati
la mascariglia/ e fatti ìdé ca sei...12».
Il fantasma si smascherò, venne riconosciuto e da allora non poté
più compiere altre malefatte.
Per quanto
riguarda la presenza delle stesse maschere in paesi diversi, una
indagine, pubblicata nel BRADS 1982/8313,
precisa che, in Gallura, a quella data erano presenti le maschere
a cavallo (con i costumi tradizionali, che ormai hanno perso la
caratteristica di abiti d’uso comune) segnalate a Calangianus,
Luras, Obia, Telti, Tempio. La parodia di uomini con fama di
scarsa intelligenza ad Aggius, Badesi, Trinità d’Agultu, Viddalba,
Vignola. Imitazioni parodie degli esponenti dell’apparato
giudiziario a Calangianus e Tempio. Uomini che si travestono da
donna e viceversa ad Aggius, Badesi, Calangianus, Telti, Tempio,
Trinità d’Agultu.
A
questo punto è legittimo supporre che dall’inversione dei ruoli
scaturissero maschere particolari di cui oggi non rimane memoria,
ma flebili tracce che possono essere interpretate come
rappresentazione di un mondo arcaico. Erano certamente presenti le
“attittadore”; il lamento funebre per la morte di “Re Giorgio” (Gjolgiu)
è pervenuto, infatti, fino ai giorni nostri. Il pianto delle
“prefiche” che viene eseguito al momento del “rogo”, e che si
ispira senza dubbio all’antica tradizione dell’“attittu”
che in Gallura veniva esasperata particolarmente fino ad arrivare
a “lu raspu”14,
condannato e vietato dalle autorità ecclesiastiche perché
disdicevole, ma che, vista la drammaticità in esso contenuta, non
può non avere ispirato le mascherate dei giovani, che a carnevale
la riproponevano in forma ironica, travistiti da vedove dolenti e
disperate per la morte dell’amato-odiato sovrano. In proposito, De
Rosa scrive che, dopo il “tocco” della mezzanotte della sera del
martedì di carnevale «nelle sale (da ballo) si vede
entrare una bara, su cui vedesi un fantoccio (Gjogiu)
rappresentante il morto carnevale, portato da quattro individui
con lungo codazzo di gente schiamazzante che grida: “carrasciali è
moltu! Ohi! Ohi! Ohi!... Gjolgiu meu, Gjolgiu meu,
lu me’ fiddolu bonu ch’eri tu, ohi ! ohi ! ohi !
(Carnevale è morto! Ohi....Giorgio mio... tu che eri il figlio mio
buono, ohi...). Deposta la bara in terra i doloranti le si
mettono in giro cantando una scherzevole trenodia e gettando
frequenti ululati che vengono ripetuti dagli astanti».
Successivamente viene incontro un corteo funebre che si agira per
il paese...
Anche la “filungnana”,
ossia la “filatrice” che scandisce lo scorrere del tempo, doveva
essere presente, visto che tra i canti arcaici galluresi si
ricordano, in particolare, questi versi:
«fila fila filungnana / dugna dì fili un’acciola
...»15,
in cui l’allegoria “Filatrice – Parca” è più che palese. Sempre
nel rispetto dell’inversione dei ruoli è da vedere la nascita del
domino, antica maschera tempiese che viene utilizzata dalle donne,
ma che riproduce nelle forme il “gabbano” maschile. A
queste si aggiungono le maschere realizzate con lenzuola,
copriletto o camice lunghe da donna che consentivano la
trasformazione in “anima di morto”.
Un carnevale ben
ricco era, fino a pochi anni fa, quello tempiese. Peccato che
attualmente invece di ricercare e rielaborare il patrimonio
culturale locale, si preferisca attingere agli altri carnevali
piuttosto che riscoprire e valorizzare il proprio.
Ma cosa ha
portato alla scomparsa di queste maschere? A parte i sermoni di
Sant’Agostino e del Papa Zaccaria, riportati dall’Alziator, che
pure devono aver avuto poca presa sul popolo, visto che fino ai
primi del Novecento si ha la testimonianza del loro persistere, un
potere deterrente maggiore devono aver avuto, senza dubbio, i
divieti imposti in varie occasioni dalle autorità giudiziarie,
preoccupate che sotto la maschera si celassero dei facinorosi.
Le due guerre
mondiali e la crisi del sughero, materia prima fondamentale per
l’economia di Tempio, hanno impoverito la manifestazione
carnevalesca: le guerre favorendo i contatti degli indigeni con
persone portatrici di culture diverse, facilitando così, per
inculturazione, l’introduzione di elementi spurii, la crisi
economica facendo venir meno, per ovvii motivi, la voglia di
divertirsi... ma la definitiva scomparsa del carnevale
tradizionale si ha nella seconda metà del Novecento. Negli Anni
Sessanta rientra a Tempio, dal “continente italiano”, Salvatore
Muzzu, portando con sé una ventata di novità, dando inizio alla
nuova era del carnevale tempiese e, di riflesso, gallurese.
Compaiono le prime maschere di cartapesta, gruppi di
sbandieratori, musicisti, majorettes... maschere e figuranti che
animano il carnevale in funzione turistica (richiamando in città
migliaia di persone) e mettono in cantina quello tradizionale. Con
gli anni, le nuove “figure”, portatrici d’usanze diverse ed
esterne alla realtà locale, diventano parte integrante del
carnevale di Tempio e della Gallura, ammirate e applaudite dal
pubblico che interpreta come maschere ciò che in realtà sono
“gruppi” di semplice folklore, ad uso e consumo del turista.
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La Reula
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Linzulu cupaltatu |
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Lu Traicoggju |
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