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Origini del Carnevale 

di Margherita Achenza

Il carnevale a Tempio e nella Gallura in generale, ha origine antica. Risalire al principio non è facile perché molte tradizioni sono completamente scomparse.

Di certo però la figura di GIORGIO, mitico Re del Carnevale Tempiese, ci riporta ad epoca pre-romana, in quanto, come sostiene D. Turchi, lo spirito della terra che fruttifica, prima ancora della religione misterica, era chiamato GIORGI, e a questa divinità venivano offerti sacrifici nel corso di riti finalizzati ad ingraziarne i favori  (Giorgi viene sacrificato per fecondare la terra).A Tempio è sopravvissuto il nome del re divinizzato (Gjolgju) insieme ad alcuni toponimi che ad esso rimandano (come per esempio la collina di Santu Gjolgju) Alle pressione delle stratificazioni culturali succedutesi nel corso dei secoli hanno resistito solo alcune locuzioni che rimandano a personaggi ormai scomparsi, come: «pari un traicoggju». Un’espressione che i più anziani traducono come riferimento a “persona rozzamente vestita che cammina in modo pesante”. Che questo sia il suo significato traslato non ci sono dubbi. 

Infatti nel Vocabolario Tempiese - Italiano del Gana, al  termine Traicoggju toviamo: «secondo la credenza del popolino, è il rumore che fa uno spirito trascinando un cuoio di bue o di cavallo al quale sono attaccati paioli vecchi, padelle, ciarpami e catene, percorrendo con altri famelici compagni le vie del paese per la penitenza…». “Lu Traicoggju”, quindi, come le vecchie maschere sarde, è una sintesi tra le figure animalesche  e quelle demoniache. 

. Un personaggio della Gallura che,  come il più celebre “mamuthone”, rappresentava nell’immaginario collettivo “l’uomo selvatico”, munito di uno strumento idoneo a produrre suoni inquietanti. Simile, quindi, alle altre maschere primordiali (mèrdules, bòes e thùrpos) che in altre zone della Sardegna hanno conservato maggiormente le caratteristiche originali. Altra reminiscenza la possiamo trovare nel termine “fuglietta”, tuttora usato per indicare una persona irrequieta ed in perenne agitazione. Sempre secondo il Gana: «la fuglietta è uno spirito malvagio che per tormentare i vivi deve incarnarsi o “prendere la figura” di un animale».

l fatto che simili lugubri personaggi possano entrare a far parte delle maschere carnevalesche sembra un controsenso. Giova quindi precisare che anche le maschere dei più celebri carnevali italiani come Arlecchino o Pulcinella, hanno origine demoniaca. Sono “anime di morto”, ci fa sapere P. Toschi, che nei sei giorni del carnevale, tornano tra i vivi per tormentarli con i loro scherzi spesso pesanti e che vengono rabboniti con l’offerta di vino, dolci o cibo. A questo si aggiungeva inoltre la consuetudine dell’inversione dei ruoli in virtù della quale era permesso alle donne indossare gli abiti maschili, agli uomini quelli femminili, il povero poteva vestire da ricco, il pastore da cittadino e via dicendo. Di queste tradizioni, come già detto rimane ben poco. Di certo abbiamo, al momento attuale, a conferma del perdurare dei riti carnevaleschi in Gallura, due poesie: la prima, del sacerdote Pietro Molinas di Tempio (1700), parla delle sorti dell’uomo in generale ma precisa che: «… Suzzedi a lu carrasciali/ una caresima pronta/ undi si paca e si sconta/ l’alligria generali/ e l’omu chi godi abali/ dumani è in calamitai…» (Segue al carnevale/ un’immediata quaresima/ nella quale si paga e si espia/ l’allegria generale/ e l’uomo che adesso gioisce/ domani è in disgrazia…); la seconda, di Matteo Pirina, noto Cuccheddhu di Telti (1843-1905), parla espressamente del carnevale ed in particolare, deplora l’uso dei bar nei trattenimenti danzanti, ma, soprattutto, ci da l’estensione temporale di questa manifestazione: «…Principiendi da li Tre Irrè/  finu a la sera di Carrascialoni/  dicu cincanta franchi, pocu è,/  si li po spindì dugna stiddoni/ ca si poni a baddà undi si paca/ mezu scudu la sera sillu laca…»  

(Iniziando dall’Epifania/ fino alla sera della Pentolaccia/ dico cinquanta lire, ed è poco/ può spenderle ogni giovanotto/  chi  balla  dove si paga/  ci lascia mezzo scudo ogni sera…) . Da questi versi abbiamo la conferma che il carnevale, nel XVIII e XIX secolo, era una grande manifestazione che coinvolgeva tutta la popolazione e che comprendeva balli, canti, abbuffate egrandi spese per un periodo piuttosto lungo: da “Li tre Irrè” (l’Epifania), fino a “Carrascialoni” (la Pentolaccia). Circa due mesi dunque, in corrispondenza col periodo in cui la terra è a riposo e i lavoratori possono “rilassarsi”, ballare, bere, mangiare e spendere (economia permettendo), fino alla ripresa delle attività.  Questa consuetudine è rimasta invariata, l’Epifania sancisce l’inizio del carnevale, ma è soprattutto nella “sei giorni” conclusiva che si raggiunge l’apice, sia nel divertimento che nelle abbondanti libagioni.

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