Questo
piatto ci riporta indietro nel tempo,
le fave erano infatti considerate nell’antichità “il
cibo dei morti”. Pitagora le proibiva ai discepoli, perché
considerava le macchie scure dei fiori simboli della presenza
delle anime dei morti e, quindi, segni infernali. Seneca, ci
ricorda D. Turchi, non le mangiava per “tema di inghiottire
insieme ad esse l’anima di qualche morto. Gli antichi romani,
invece, ne facevano largo uso e le cucinavano in modi diversi; ci
è pervenuta una ricetta di Apicio straordinariamente simile alla
nostra favata di
carnevale.
In
alternativa alle fave, non gradite a tutti, si preparano i fagioli
secchi, cucinati con castagne, anche queste secche, e insaporiti
da un soffritto di cipolle lunghe novelle.
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Altro
piatto tipico del carnevale è la gelatina (li
pidichini)
ottenuta dai piedi e
orecchie di maiale, conservati nel sale, preparata in due
varianti, dolce o salata. Nel primo caso, i piedi e le orecchie
dissalati vengono fatti bollire per ore (finché non si
spappolano) in abbondante acqua con qualche cipolla, poi, a fine
cottura, vengono aromatizzati con buccia d’arancia o limone
grattugiato, zucchero
e uva passa;
nel secondo
caso sono aromatizzati
con aceto. Completata
la cottura
si versa
il brodo
ottenuto, con piedini e orecchie ormai sfatti, nei piatti fondi e si lascia raffreddare finché non si rapprende. Questo piatto si
prepara in abbondanza e dura per tutto il carnevale. Una ricetta
simile alla nostra seconda variante troviamo in un ricettario di
cucina medievale e costituiva una vera e propria raffinatezza,
oggi è molto meno apprezzata.
Diversi
sono i dolci tipici del carnevale. Tra questi ricordiamo
li
frisgioli longhi, l’acciuleddi e l’uriglietti.
Li frisgioli longhi (frittelle lunghe), morbide e dorate,
oggi si offrono soprattutto a conclusione dei pasti. Un tempo,
questo dolce, veniva servito anche al pomeriggio o la notte, dopo
le mascherate e i balli, servite caldissime, annaffiate con ottimo
moscato (e quello di Tempio è giustamente famoso).
Si
preparavano friggendole nell’olio di lentischio (ociu
listincu), nei
fornelli predisposti sui poggioli delle case per evitare che
l’odore acre, sprigionato da quest’olio,
impregnasse l’interno delle abitazioni. Venivano offerte
alle maschere che, girando per il paese, lanciavano mandarini,
arance e confetti alle dame affacciate ai davanzali.
L’impasto
è costituito, oggi come allora, da farina, acqua, uova e lievito,
aromatizzato con buccia d’arancia o limone, e a volte con
acquavite. I tradizionalisti sostengono che le uova sono di
recente introduzione.
La
forma delle “frittelle lunghe” richiama alla mente le
“budella arrosto”, cucinate dopo l’uccisione degli animali
domestici. Non è azzardato vedere in questo piatto, un retaggio
degli antichi riti sacrificali in cui si offrivano ai
partecipanti, in primo luogo, le interiora arrostite.
L’acciuleddi e
l’uriglietti,
in molti casi, sostituiscono le frittelle. Una volta cotte,
infatti, si possono conservare per tutto il periodo carnevalesco,
quindi averle sempre a disposizione per offrile all’ospite
improvviso. Dei due, la prima è sicuramente la più antica. Essa è
costituita da un impasto di farina, acqua, strutto ed
eventualmente uova. Lavorato a lungo, si presenta liscio ed
omogeneo (pasta sviulata).
Da
quest’impasto si ottengono dei cordoni,
del diametro di circa ½ centimetro ciascuno che vengono avvolti
su se stessi a forma di “matassine” (acciuledda
significa appunto matassina,
una piccola quantità di filato utilizzato nella tessitura fin
dalle origini della nostra storia). La seconda, invece, è più
databile. Il suo nome
proviene dallo spagnolo orilla,
che significa bordo,
ritaglio. Anche questa è
costituita da pasta
sviulata, tirata sottile e tagliata a forma di rombo con la rotella dentata (rutinu).
Sia
l’acciuleddi che l’uriglietti
vengono fritte in olio abbondante e avvolte di miele. Anche
questi dolci si accompagnano con vino bianco, moscato o vermentino
di Gallura.
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